Visualizzazione post con etichetta Pezze al culo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Pezze al culo. Mostra tutti i post

Recruiting & Call Center


Una telefonata-tipo di call center è un algoritmo piuttosto semplice che ha lo scopo di individuare se l'interlocutore sia o meno il tipo di persona che si sta cercando e guidarne le risposte per conseguire lo scopo della telefonata.
In questo caso l'obiettivo era verificare che il malcapitato volesse davvero fare il piazzista a provvigioni e che avesse Skype per fare il colloquio con il dott. Carlo Gustavo che avrebbe fornito tutte le informazioni e sanato ogni dubbio fosse frullato nella testa della vittima prescelta.
Già il fatto che il tutto avvenisse esclusivamente tramite Skype avrebbe dovuto far insospettire i possibili candidati sulle reali condizioni dell'azienda che li stava contattando.
Io mi ero divertita come una matta quando i primi tempi Ridens faceva queste telefonate. Avevo ascoltato scambi terrificanti:
«Buongiorno sono Giada di SuperWeb. Parlo con il signor Volpe?»
«...»
«Bene, hihihi, la chiamo per quell'offerta di lavoro... no, quella a cui ha risposto. Si ricorda adesso?»
«...»
«Certamente, ma io la chiamavo solo per verificare la sua disponibilità a un colloquio via Skype con il responsabile delle risorse umane, dottor Carlo Gustavo. Lei è... d'accordo?»
«...»
«No, mi dispiace, niente telefoni, i colloqui li facciamo solo via Skype. Se vuole il lavoro lo deve installare, hihihi»
«...»
«Ihihihi, lei vada sul sito e segue le istruzioni, d'accordo?»
«...»

In momenti come questo la mia fiducia vacillante nel genere umano e nel sistema di cui facevo parte, migliorava un po' perché molti si accorgevano della fregatura, la mandavano a quel paese e la cosa finiva lì.
Ma c'erano alcuni di quei disgraziati, vuoi per disperazione, vuoi per ingenuità, vuoi per altri motivi che non riuscivo nemmeno a immaginare, che abboccavano all'amo come grosse carpe stupide.
Durante quelle telefonate, Ridens doveva prendere l'appuntamento su Skype ed evitare, pena i cazziatoni atomici di Walter, di dire che si trattava di un lavoro di piazzista a provvigioni incerte e paga miserrima. Quest'ultima spesso a discrezione del titolare.
Ed ecco spiegata la necessità dello psicologo: con questo sistema acchiappacitrulli il turn‑over dei venditori era spaventoso. Niente a che vedere, dunque, con l'espansione dell'azienda. Invece si trattava di una modalità tritacarne che necessitava di venire alimentata in continuazione con materiale umano “poco esigente e poco intelligente”, reclutato in massa con metodi da pesca a strascico.


Tratto da L'Alba dei Farabutti.



 

L'amico frikkettone: sei anni dopo


Non è vero che non scrivo più.

Tutt'altro.
Scrivo altrove, di altre cose. Meno personali, meno divertenti per me.

Ma la verità è che sono stressata e incasinata.
Cerco di visualizzare la mia vita in un'immagine unica: un enorme, gigantesco Tetris sgargiante, coi pezzi che cadono sempre più veloci.
Ciascun pezzo un capitolo di un'esistenza come tante, da cui non riesco a sfuggire nemmeno durante una fantasia diurna come questa che è sbocciata così, dio solo sa perché.

Un gesticolare nervoso mi riporta al presente.
Lui mi fissa impaziente, sta aspettando una riposta e io oso distrarmi.
«Impossibile» sentenzio.
«Come impossibile?»
Adesso è seccato. Lo vedo da come tira i nervi del collo.
Annuisco gravemente.
«Perché dici così?» Chiede ancora, cercando il mio sguardo che invece vaga in alto, tentando di anticipare il pezzo di Tetris che mi sta piombando dritto sulla testa.
 «Vedi, non è una scelta che possono fare tutti. Ci vogliono dei pre-requisiti imprescindibili a mio avviso» dico lentamente, come se facessi fatica a scegliere le parole giuste. In realtà ho attivato solo il neurone-muletto, è più che sufficiente a portare avanti la conversazione.
Alzo la mano sorridendo.
La cameriera si avvicina.
«Che cosa le porto, signora?»
«Un Americano, per favore.»
«E un'altra birra» aggiunge lui.
Attende che la cameriera si allontani e poi sbotta offeso: «io non ti capisco, questa potrebbe essere una svolta per la mia vita e tu sei sempre così negativa. Perché dici che non è possibile? Io... io in questo paese di merda non ci resisto più.»
«Perché nessuno sano di mente può dire sul serio: mollo tutto e vado in Messico...»
«Ehm, Ecuador.»
«Giusto Ecuador, era l'altra volta il Messico, mi sono confusa. Comunque nessuno può dire così. Una base di sussistenza ci vuole, chiamala come ti pare: riserva di soldi, risparmi, gruzzoletto, eredità, rendita, un affitto... Robe così. E tu non ce l'hai, giusto?»
«No.»
«Ecco perché, secondo me non puoi partire di punto in bianco, senza soldi per la Thailandia...»
«Ecuador!»
«Sì scusa Ecuador,  ma il concetto non cambia: Ecuador, Thailandia, un trullo in Puglia. Tu ambisci a un'esistenza da nullafacente, pardon artista, ma anche se ti trasferissi dove la vita costa poco o pochissimo, non potresti campare d'aria per il resto dei tuoi giorni. Non credi? D'altronde l'accumulo significa scendere a patti con quel sistema che combatti da sempre, giusto? Insomma: un precario che ha sempre guadagnato 500 euro al mese, ce lo vedi ad andare a vivere in un posto dove avrà ancora meno possibilità di sussistenza? E tu che hai un reddito ancora più basso, sei sulla stessa barca del precario.»
Annuisce pensoso. Poi dice piccato: «Ho le mie risorse, comunque, posso sempre inventarmi un lavoro.»
Inventarmi un lavoro, diocristo.
«Ok, se lo dici tu» taglio corto.
Non sono in vena di polemiche, mi è stata chiesta l'opinione su una cosa che non avverrà mai, l'ho detta e mi sono già stancata della pesante compagnia.
Salutiamoci e facciamo passare altri cinque o sei anni.
Mi sembra la scelta più salutare.
Gli articoli sui blog di "wellness" che consigliano di tagliare i rami secchi ed eliminare le cosiddette amicizie tossiche, sembrano scritti proprio per noi.
Arriva la cameriera col mio Americano e la birra. Mette il conto sul tavolo: «Allora: con quella di prima sono due birre e un Americano, fanno 16 euro.»
«Eh, scusa, sono un po' a secco puoi anticipare?» dice lui.
Non ricordo una volta che abbia pagato qualcosa al bar, anche solo per sé stesso.
L'amico frikkettone è deluso, si vede che si aspettava un'altra reazione da me. Del resto una convocazione così, in un bar del centro, dopo anni che non ci vediamo mi ha messa sulla difensiva. Conosco i miei polli.
Tra l'altro, nel vecchio gruppo di amici, sono l'unica ad aver acconsentito a incontrarlo. Forse per masochismo, o per altri sentimenti auto distruttivi che adesso non ho voglia di esplorare.
«Non hai i soldi nemmeno per le tue due birre?» chiedo.
Non voglio fargliela facile.
«Ehm, no.» dice con un sorrisino odioso.
Senza aggiungere altro, pago tutto io.
La cameriera si allontana.
Lo guardo, è invecchiato.
Ed è pure ingrassato tanto da quando ha lasciato Firenze ed è tornato a vivere con la mamma.
Ma ora è felice anche se non lo ammetterebbe mai apertamente: non deve più preoccuparsi di far finta di cercare lavoro.
Nonostante i segni del tempo, infatti è rilassato, disteso, inspiegabilmente abbronzato.
È sparito dai radar di tutti noi, vecchi amici di sempre che non abbiamo fatto nemmeno poi tanto per trattenerlo; nell'ultimo periodo gli avevamo affibbiato il soprannome "la tassa", non c'è bisogno di aggiungere altro.
Ogni tanto su Facebook posta qualche sua foto con amici più giovani, parecchio più giovani. Lo vediamo a concerti semi-deserti, oppure seduto a improbabili tavolate e foto di gruppo ai giardinetti coi graffiti in sottofondo.
«Comunque potrei sbagliarmi» continuo senza sapere perché. «Potrebbe essere davvero una soluzione ideale andare via, abbandonare l'Italia.»
«Infatti» dice piccato. «Poi mi posso organizzare, non credo di aver problemi a cavarmela da solo in Ecuad...»
«Eh no. Scusa se ti interrompo: hai appena ordinato e bevuto due birre pur sapendo di non avere soldi» dico senza riuscire a trattenermi.
«Vabbè, ma che c'entra?»
«C'entra perché hai dato per scontato che io avrei pagato per te, e ti sei sentito libero di prenderne due di birre, tanto i soldi sono i miei.»
«Se è così te li rendo, non ti preoccupare» dice offeso.
«Non l'ho detto per questo, era solo per farti capire che non hai risorse e non ti interessa nemmeno averne. Non hai testa per gestirti i soldi da solo. Poi eh, se mi rendi i soldi li prendo.»
Fa finta di non capire.
Finiamo il drink in silenzio e ci salutiamo.
Non mi ha fatto piacere rivederlo.
E nemmeno a lui.




*L'amico frikkettone è stato un peronaggio ricorrente nel mio vecchio blog.

Lui dice di essere conte, ma invece sta in un seminterrato alla giapponese



Sono una persona fortunata.

Professionalmente, intendo.

Sono costantemente, quotidianamente circondata da persone che frullano, fibrillano. Good vibe a iosa. Progetti, idee, start up, visioni, ecumenismo tecnologico tout court.
Persone di spessore che sono consapevoli di aver tanto da dare e da trasmettere al mondo. Il mondo, ok? Niente paesello o cittadina: benvenuta globalizzazione delle idee e delle energie creative.
Sinergie. Io sono un visionario, tra quattro anni questo modello sarà la norma. Investimento è la parola d'ordine. Vision, mission.
Stiamo vendendo a Tokyo, siamo stati presenti alla Fiera più importante del Giappone, a fianco dei colossi. Siamo una realtà dinamica, non ci fermiamo perché questo paese ha bisogno di una spinta vera, di un impegno reale.
Noi stiamo qui, abbiamo scelto di stare qui. Lo vogliamo. La nostra parola d'ordine è sostenibilità, chilometro zero, non ci interessa il profitto: la priorità sono le persone. Qualità. La qualità sempre. Made in Italy. Piccolo è bello. L'attenzione ai dettagli.


In tutto ciò c'è qualcosa, qualcosa di molto familiare.

Ma non mi viene in mente. Mi scervello.

Santo cielo, ora lo so.

Illuminazione e fastidio.

Riprova: cogli i segnali, le sfumature. Guarda nelle pieghe, analizza le smagliature. Dai, sveglia.

È il momento di essere incisiva.

Mi schiarisco la voce, entrando in "modalità 5 ottobre 1966".
È facile, siamo nell'era di Instagram, sappiamo che la realtà è solo una questione di filtri colorati intercambiabili. Tu me la racconti come ti pare, io cambio le lenti e la vedo in un altro modo.

La vedo com'è, appunto.

Perché io ho una guida fidata: la teoria del semiterrato alla giapponese.

Eccola:
  • DIARIO: Firenze 5 ottobre 1966. Oggi 5 ottobre ho traslocato a casa di un amico del babbo.
  • Conte Mascetti: Che è?
  • Luciano: Il diario che la signora maestra ci fa tenere alla fine di ogni giornata.
  • Conte Mascetti: Brava, intelligente codesta maestrina.
  • DIARIO: Lui dice di essere conte, ma invece sta in un seminterrato alla giapponese, tutto ghiaccio e umido, senza telefono, senza acqua calda, col cesso coi piedoni e un fornelletto dove la moglie c'ha cucinato una frittatina di due uova, che abbiamo mangiato in tre più un rinforzino, come lo chiama lui, di nove olive di numero, mezz'etto di stracchino e un quarto di vino sfuso. Tutto, vitto e alloggio, per 150.000 lire che mi pare proprio una rapina anche se lui, per fare il conte, chiama castello un aggeggio di tre locali. 
  • Luciano: Loculi. 
  • DIARIO: Di tre loculi. Dove mi toccherà dormire assieme alla moglie una donnetta secca e rifinita come il suo nome: Alice. E la figlia, Mela, che per fortuna non dà noia, perché è una handicappata, incapace di parlare e camminare alla sua età. Io dico che codesto conte o è un gran bugiardo, o si è ridotto proprio come un disperato.
  • Conte Mascetti: 10 e lode...

Parliamo del pagamento? Chiedo con nonchalance.

Sa la crisi, non c'è trippa per gatti, purtroppo le cose vanno come vanno.
Non abbiamo credito, facciamo a 90 giorni?
Con o senza fattura?
Sì, lo so, sono poche centinaia di euro, ma le assicuro che non possiamo fare altrimenti. Purtroppo, lei lo sa, di questi tempi... Abbiamo grattato il fondo del barile.
Pensiamo di emigrare come ha fatto l'Azienda Tal del Tali, [abbassando la voce, quasi sussurrando] sa sono in Svizzera adesso... Abbiamo ridimensionato, purtroppo. Downgrading.
Le attrezzature? No, non possiamo investire. Le banche non ci danno tregua...


Eccolo il monolocale alla giapponese.


In alcune occasioni occorre essere Lucianino.

Il Nemico

Sono triste e ho lo scoramento. Il motivo è presto detto: lo Stato italiano mi deve all'incirca novecento euro. Vogliono che mi rechi negli uffici appositi per iniziare la procedura di rimborso. Dovrei essere contenta, invece no.  Sono avvilita da quando mi sono resa conto del perché questa per me non sia affatto una bella notizia.
Ma andiamo per ordine. Tempo fa l'Inps mi ha mandato una lettera a casa dove mi dice che ho questi soldi da recuperare, roba pagata in più negli anni passati, mentre chiudevo la mia vecchia attività perché non ce la facevo più ad andare avanti.
Sono tanti soldi, un piccolo "tesoretto", anzi, a penasarci bene mica tanto piccolo, specialmente adesso che c'è la crisi, si lavora meno e si deve rinunciare a quasi tutto perché non c'è più trippa per gatti, signoramia.
Dopo qualche giorno però mi sono resa conto di non avere il coraggio di andare a ritirarli. Paura dell'effetto vaso di Pandora, di scatenare l'Inps e di entrare in meccanismi kafkiani che mi fanno venire il magone solo a scriverne, adesso, in questa pausa caffè anonima.
Ne ho parlato con alcuni amici, e tutti mi hanno dato ragione e mi hanno detto di lasciar perdere i soldi, anzi: di far finta che quella lettera non sia mai arrivata.  Perché non è possibile che mi restituiscano quei soldi indietro e ormai non conto più le storie di persone che, in una situazione simile, si sono ritrovate con la somma quintuplicata - ma da pagare loro allo Stato - per "sciocchezzuole" di cui non sapevano nulla e labirinti infernali di ricorsi.
In attesa di prendere una decisione avevo attaccato la lettera al frigorifero, interrogando chiunque mettesse piede in casa mia. E tutti a dirmi di lasciar perdere.  Infine l'epilogo: ieri ho preso la lettera e l'ho stracciata in piccoli pezzi e adesso sta nella pattumiera della carta. Domani se mi ricordo la porto al cassonetto. Cos'è successo ieri? Semplice, ho letto Avviso ai migranti su KeinPfusch e poi ho letto anche il thread nel forum sempre sull'argomento dei finti rimborsi. Tutte esperienze (un po' diverse, parlano alcuni residenti all'estero, ma tant'è) di persone che con la scusa di ottenere rimborsi dallo Stato italiano si sono trovate invischiate in meccanismi kafkiani o fantozziani che dir si voglia. E la riflessione è amara. Mi sono resa conto di percepire come un nemico lo Stato in cui sono nata, che dovrebbe tutelarmi, di cui mi dovrei fidare e a cui - in un mondo ideale - dovrei essere contenta di dare i miei soldi sotto forma di tasse per quello che fa per i cittadini. Un meccanismo di sfiducia naturale, innescato dall'esperienza. Un nemico poco nobile, di quelli che nei film fanno i furbastri e di cui non ti puoi fidare mai, ma proprio mai, il personaggio che "mancia spaghetti e suona mandolino, dice cosa e poi fa altra", tanto per fare una citazione colta. Quindi tenetevi i miei novecento, grazie.

No logo

Perché poi una diventa acida. Ci credo. Perché una va a cena da un'amica che non vede da tanto. il marito è a calcetto. Si mangia, si parla, si mette a letto la creatura meravigliosa e stranamente tranquilla che non ha rotto le scatole quasi per nulla. Poi caffè sul divano e arriva "slang" aka il consorte. Slang è venuto fuori da un po' - e non da me, maligni lurker del cavolo che poi mi scrivete in privato perché avete riconosciuto il soggetto- dopo aver letto i suoi status di facebook sgrammaticati cercando di scrivere in vernacolo, arte che solo l'intramontabile Vernacoliere riesce a compiere senza scadere nel patetico. Ora: Slang mi saluta appena, va di là e ritorna subito dopo con un portatile acceso che mi butta in grembo. Non faccio in tempo a chiedere che succede che lui mi dice che gli DEVO fare un favore. Perché ha il suo logo (il suo logo?) che - deve mandarlo a quello che gli stampa i biglietti da visita - non è vettoriale e gli hanno detto che così gli viene fuori uno schifo. Non è un logo. Faccio la finta tonta e gli dico di chiedere al grafico che gliel'ha disegnato perché di norma un logo si fa in vettoriale. Punto nell'orgoglio mi dice che l'ha fatto da solo! Guardo il disegno e sembra uno scaracchio catarroso sull'asfalto. Cerco di tagliar corto e continuare la conversazione con la mia amica che distoglie lo sguardo. Anche lei sapeva: collaborazionista! Gli dico di mandarmi il file. Lui mi interrompe, mi dice che me lo manda subito se glielo posso fare domani mattina presto, ché ha fretta lo deve mandare in stampa subitissimo...  Gli dico di mandarmi il file che poi gli faccio il preventivo per il lavoro. Ci vorrà una settimana dico a occhio e croce, senza stare ad ascoltare le sue urgenze. Mi guarda malissimo, piagnucola, cazzo questo piagnucola perché non può avere tutto subito e gratis. Devi morire, penso. Sorrido dico che si è fatto tardi e torno a casa.

Il #Natale si avvicina, cominciano i consueti #desiderata

Ecco due cose mi piacerebbe ricevere come regalo di Natale:

Aria di cioccolato spray: tutto il gusto della cioccolata e nessuna caloria!

Infusore per tisane alla "Guerre Stellari"


Poi ricordo, tanto per la cronaca e la ciana, che ho il frigo rotto, mi manca la televisione, il tostapane ha esalato l'ultimo respiro pochi giorni fa e nemmeno il cellulare si sente tanto bene.

La teoria della classe disagiata - recensione + flusso di coscienza

  Ho finito di leggere La teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, edizione Minimum Fax. Una lettura che mi ha messo addo...